L’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato ha adottato il regolamento per la concessione del rating di legalità, così come previsto dal decreto sulle liberalizzazioni. Stiamo assistendo alla posa di una pietra fondamentale per la costruzione di un sistema economico più responsabile? A questa domanda risponderanno il corso degli eventi e, soprattutto, il decreto del ministero dell’Economia, che darà indicazioni alle banche su come considerare questo strumento nella valutazione del merito creditizio. Per il momento, concentriamoci sugli aspetti di responsabilità sociale affrontati nel documento. A giudicare da quello che oggi è ufficiale, il supporto fornito dal regolamento alla diffusione di pratiche di responsabilità sociale, non sembra particolarmente rilevante. Rispetto alla bozza agostana del regolamento, infatti, tutti i dubbi riguardanti l’aleatorietà con la quale vengono affrontati i temi di Csr e l’autoreferenzialità del processo permangono.
Parlando di responsabilità sociale, al di là dello scarsissimo peso riservatole nella valutazione complessiva (la Csr è uno dei titoli di merito facoltativi), la confusione regna sovrana: l’Agcm mantiene la fumosa dizione della bozza originaria in cui “ladesione a programmi promossi da organizzazioni nazionali o internazionali” – valida ancorché generica istanza – è equiparata all’“acquisizione di indici di sostenibilità”, una dicitura del tutto incomprensibile.
Sarebbe bastato poco per citare o rimandare alle recenti comunicazioni della Commissione Europea sul tema (COM(2001) 366, COM(2011) 681). Dispiegando maggiormente l’ambito d’azione della Csr, si sarebbe potuto parlare di politiche, sistemi di gestione e verifica dei risultati, in grado di abbracciare tutti i portatori di interesse dell’azienda, così come indicato anche dallo linee guida Iso 26000: dipendenti, consumatori, fornitori, generazioni future (ambiente), azionisti e comunità locali. Alla luce di questo punto di vista più strutturato, a maggior ragione il peso assolutamente residuale assegnato alla Csr nella valutazione del rating appare inadeguato.
Per quanto riguarda gli aspetti di controllo, invece, il rilascio del rating di legalità si basa sull’autocertificazione dei dati da parte dell’impresa richiedente e sulla possibile ma non certa verifica degli stessi da parte dell’Autorità. Il processo, che prevede una richiesta di informazioni da parte dell’Agcm ad altre amministrazioni pubbliche, può verosimilmente scontare ritardi comunicativi, portando a confondere il silenzio degli enti coinvolti con una conferma delle informazioni richieste. In ogni caso, l’attività di controllo dell’Autorità non dovrebbe mai essere lasciata ad una scelta discrezionale o statistica ma eseguita sistematicamente per tutte le richieste ricevute. Su questo fronte, il regolamento adottato presenta qualche miglioramento rispetto alla prima bozza, almeno per la verifica dell’esistenza di condanne definitive per i reati ostativi al rilascio del rating (si parla di “consultazione diretta del sistema informativo del casellario giudiziale” quando questa sarà possibile).
Come osservato durante la fase di consultazione pubblica, il processo poteva essere reso più efficace, introducendo elementi terzi nella valutazione. Per esempio, alle imprese si poteva richiedere di dimostrare il proprio impegno sui temi di Csr, con profili e pareri motivati da parte di valutatori esterni. Per uscire dal far west dell’autodichiarazione, sarebbe stato sufficiente introdurre elementi oggettivi e verificabili, che attestano l’impegno dell’impresa in campo Csr, quali, per esempio, le certificazioni (Sa8000, Iso 14001, Emas, Ohsas 18001…) o la conformità alle linee guida Iso 26000. Così, invece, il misero punteggio migliorativo portato in dote dalle iniziative di Csr assomiglia a un bonus egalitario, per accedere al quale basta dichiarare di fare qualcosa anche solo vagamente affine al campo della responsabilità sociale. Sulla base di che criteri, infatti, l’Agcm deciderà ciò che è Csr e ciò che non lo è?
Infine, per quanto riguarda il mantenimento dei requisiti necessari, l’attività di controllo dell’Agcm, così come gli obblighi informativi delle parti coinvolte nel processo, sembrano interessare solo le possibili problematiche insorte sul territorio italiano, dimenticando il livello di interconnessione con l’estero e internazionalizzazione delle imprese che probabilmente andranno a richiedere il rating. A parte i casi di illeciti antitrust sanzionati dalla Commissione Europea, infatti, tutto il resto sembra si giochi sul terreno di casa propria, in un dialogo tra imprese ed istituzioni, completamente sordo alle sollecitazioni di un mondo globalizzato.
In sostanza, il regolamento disegna uno strumento di valutazione miope fin dalla nascita, che avrebbe potuto essere più innovativo e invece è piegato sul proprio ombelico, focalizzato solo sulle attività domestiche delle imprese e dimentico delle implicazioni globali del business, così come della complessità e varietà di iniziative, impegni e risorse che si celano dietro la generica etichetta di Corporate Social Responsibility.
Proprio per queste ragioni, siamo curiosi di leggere il decreto che guiderà le banche nell’interpretazione e nell’applicazione del rating. Chissà che dall’uso intelligente di uno strumento imperfetto non possa comunque nascere qualcosa di buono.