Non è così scontato, in questa infelice congiuntura economica, che le imprese abbiano voglia di tagliare nastri per avviare nuove attività. E, ammesso che lo facciano, è ancora meno scontato che il nastro decidano di tagliarlo proprio nel nostro Paese, dove fare impresa è notoriamente più complicato e costoso che in decine di altre location. E invece. Qualcuno ci crede ancora. E addirittura rilancia: a certe condizioni, investire in Italia può rivelarsi un buon affare. Una provocazione? Può darsi, ma chi la lancia ci crede a tal punto da averci investito sopra 40 milioni di euro. Non a caso l’investimento fatto da Barilla nel nuovo stabilimento di sughi, a Rubbiano di Solignano (Pr), si è giustamente meritato le prime pagine dei giornali e l’intervento di Mario Monti nella giornata inaugurale. In molti, commentando l’evento, hanno notato con implicito sollievo che se un colosso come Barilla ci sceglie ancora, non tutto è perduto. Ma per i paladini della green economy, fermamente convinti che ci sia un forte legame tra politiche di sostenibilità e profittabilità d’impresa, Rubbiano è anche qualcosa di più. È una sorta di quadratura del cerchio, che coniuga perfettamente la vocazione di un’impresa sostenibile a valorizzare il territorio in cui opera con i maggiori ritorni che, nel lungo periodo, questa scelta può portare con sé. A confermarcelo è proprio Guido Barilla, presidente del gruppo che porta il suo nome, raggiunto negli uffici di Parma da Maria Cristina Alfieri, direttore editoriale di Gruppo Food per unintervista pubblicata sul numero di novembre di GreenBusiness. «Investire sul territorio può essere una scelta vincente anche dal punto di vista dei risultati – rimarca Barilla –. Non è affatto vero che tutti gli stabilimenti, se gestiti in un certo modo, possono avere le stesse performance. Il posto fa la differenza e, nel lungo termine, certi siti danno ritorni più interessanti».
Siete rimasti a Rubbiano per questo?
Siamo rimasti a Rubbiano perché per noi è un sito strategico. Da metà degli anni Sessanta abbiamo lì uno stabilimento, che fa prodotti da forno ed è gestito da un gruppo di dipendenti estremamente motivato e con una cultura industriale molto significativa. La scelta è ricaduta su quell’area sia perché è consona alla nostra attività produttiva, sia perché la qualità della gente che ci lavora è molto alta.
Fa piacere che il capitale umano abbia ancora un peso così importante…
Lo ha il capitale umano, così come lo ha il legame con la filiera. Le salse di pomodoro che noi produciamo sono prodotti molto delicati, che hanno bisogno di materie prime particolarmente raffinate: un maggior controllo delle filiere sul territorio ci dà, su questo fronte, maggiori garanzie di qualità. Noi utilizziamo il pomodoro che viene in gran parte dall’Emilia Romagna, così come vengono dai territori circostanti alcuni altri componenti, come il basilico, che sono essenziali per la ricettazione delle nostre referenze.
Mi sta dicendo che state lavorando per una forte integrazione tra la vostra realtà industriale e il mondo agricolo?
Credo che, specialmente in questi periodi di difficoltà, una delle scelte che gli operatori economici di diversa natura – siano essi agricoltori, industriali, distributori o banchieri – dovrebbero fare è proprio quella di abbandonare la rigidità delle loro posizioni, per passare da una logica di conflittualità a una di collaborazione.
È un passaggio epocale…
Lo è certamente, però è necessario. O comprendiamo che per gestire in modo più efficiente e con costi minori le filiere dobbiamo accordarci invece che confliggere o la strada sarà estremamente più difficile e complicata per tutti, quindi non solo per le imprese di varia natura, ma anche per i consumatori finali perché, se non riusciremo ad attivare importanti sinergie cooperative, i costi dei prodotti finiranno per essere più alti.
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Parlando di bene comune, molti produttori lamentano il fatto che, in sede di trattativa economica, la sostenibilità sociale e ambientale delle imprese conti ancora molto poco, agli occhi dei retailer, rispetto a prezzi e sconti. È così?
Per il momento l’attenzione della distribuzione, in Italia come all’estero, è molto concentrata sulle condizioni economiche. È chiaro che i retailer sono accorti nella valutazione dei prodotti, ma la visione è sempre quella che assegna un peso preponderante al traffico, al peso dello scontrino, alla velocità di rotazione: non è perché si è bravi e virtuosi che vengono spinte le proprie referenze. Anche qui bisognerebbe fare un passo avanti, perché i risultati di una politica che si concentra solo su pricing e promozioni sono sotto gli occhi di tutti. Come dicevo prima, la chiave di volta è il passaggio dal conflitto alla partnership, per spingerci verso nuove frontiere che creino valore per tutti.